mercoledì 29 settembre 2021

King of the avenue (2010) - #Recensione

King of the avenue (Titolo rimasto inalterato nella versione in Italiano) è un thriller-drammatico americano uscito nel 2010.

La storia è quella di un ragazzino che dopo aver perso la madre viene adottato da un boss della malavita, che se ne prende cura per il resto dei propri giorni con amore, ma dandogli insegnamenti, relativi al proprio stile di vita.

Per quanto apparentemente, con tutti i suoi difetti, fosse risultato agli occhi del figlio un padre affettuoso, premuroso ed un vero e proprio idolo per lui e per quanto questi insegnamenti applicati alla vita di tutti i giorni gli abbiano permesso di diventare qualcuno, quel qualcuno non era altro che una copia del padre.

Il figlio infatti si ritrova ad essere nient'altro che un altro spacciatore di droga di quartiere, con un buon giro d'affari e la convinzione di non fare la stessa fine del padre. 

Difficilmente il film, visto anche il cast, aveva particolari pretese, eppure secondo la maggior parte del pubblico sono state tradite le attese, valutandolo dunque abbondantemente sotto la sufficienza.

E' certamente la credibilità dei vari protagonisti nella parte dei loro rispettivi personaggi, ed in particolare ancor di più la recitazione vera e propria, che risultano innegabilmente piuttosto scadenti.

Da salvare forse sotto questo aspetto, la performance di Irving Rhames, nella parte del padre, il suo ruolo da duro inflessibile alla vita forse lo rende più facile da eseguire, ma è stata pur sempre una decente esibizione di carisma.


Chi di contro invece ha decisamente deluso è proprio, Simone Rex, protagonista del film e presente in quasi ogni scena, esclusi i flashbacks da piccolo, che proprio non riesce a trasmettere tutto il range di emozioni, davvero molto ampio ai fatti, che il protagonista vive durante tutta la pellicola. 

Andare avanti con la trama in questo caso significherebbe un inevitabile spoiler troppo rilevante, ma quello che può essere detto e che è anche il miglior complimento che si possa fare al film, è che di positivo ha una doppia morale, ed entrambe fanno capire come il film aveva una buona base di partenza che forse non è stata sviluppata al meglio.

La prima riguarda l'aspetto interiore del protagonista, di come quando qualcosa venga represso per anni, tenda spesso a manifestarsi tutto insieme, con una forza inarginabile e talvolta persino in grado di far cambiare la propria personalità. Sotto questo aspetto il film analizza, e lo fa abbastanza degnamente, un elemento della vita che solo nelle ultime decadi è diventato veramente rilevante a livello medico e psicologico, tanto che sono state ufficialmente inserire come condizioni cliniche gli shock traumatici post guerra o le depressioni post parto, per farne alcuni esempi. 


L'altro aspetto interessante è come il film si interroghi sul fatto di riuscire o meno a rompere un cerchio, figurato, nella vita, o ancor più precisamente nelle discendenze. 
Il figlio infatti cerca di uscire da questo simbolico cerchio dove continua a ricalcare volontariamente ed involontariamente le orme del padre e per quanto le sue mosse sembrino sempre, a lui, del tutto coscienti, il pensiero che l'inconscio abbia giocato una parte molto rilevante in tutto questo, prende sempre più piede dentro di lui. La morale finale sta dunque nella domanda simil retorica del protagonista, che dopo aver constatato di aver fallito in questa sua missione, domanda allo spettatore se invece esso sia in grado di rompere le proprie catene.
Naturalmente non tutti cerchiamo di non diventare qualcuno nel mondo della malavita, si parla anche di catene più piccole, riguardanti aspetti anche non cosi tragici, ma comunque negativi, che si tramandano in famiglia da generazioni e nessuno riesce a fermare la tradizione. 

domenica 26 settembre 2021

Sul tetto del mondo - Walter Bonatti - #Recensione

In questi giorni ricorre il decennale della scomparsa del grande, grandissimo, Walter Bonatti, alpinista estremo, esploratore e giornalista italiano. Per l'occasione la Rai ha prodotto una Docufiction, sotto la regia di Stefano Vicario, figlio di Rossana Podestà, colei che condivise inseparabilmente con Bonatti gli ultimi 30 anni delle rispettive vive. 

L'opera è stata molto criticata dalle principali testate giornalistiche, soprattutto per alcuni aspetti specifici, come la poca amalgama tra i filmati storici dell'epoca e le parti nuove girate dal regista, e per la scarsa somiglianza fisica effettiva degli attori scelti, ai personaggi reali che dovevano rappresentare.

Tuttavia, il film scorre bene e per quanto ci sia chi ritiene che non renda piena giustizia alla figura di Bonatti, lo rende comunque molto fruibile ed intrigante a tutte le nuove generazioni che non erano a conoscenza della grandezza delle sue imprese ne tanto meno della sua grandezza come uomo. 


La trama è semplicemente il ripercorrere con flashback sulla sua vita, misti a filmati storici di archivio con il vero Bonatti, la sua esistenza, il tutto con il costante leitmotiv della sua relazione, nata quando ormai erano entrambi cinquantenni, con la famosa attrice Rossana Podestà, da li il nome completo dell'opera "Sul tetto del mondo - Walter Bonatti e Rossana Podestà".

Certamente il fatto che in una carriera come quella di Bonatti, si debba ricorrere come sempre, da solito stile Italiano, alla necessità di inserire l'amore di coppia come centro di tutto, sembra un po' stucchevole, ma ai fatti non è proprio cosi. Come detto tutti i 90 minuti di film scorrono bene e nemmeno la loro storia d'amore, inoltre ulteriormente e dichiaratamente romanzata per il copione, non risulta affatto fuori luogo.

Chi era però questo Walter Bonatti, che ai più, specialmente se giovani e certamente ai non appassionati di montagna, risulta sconosciuto?, e soprattutto, viene davvero fuori da questo lavoro, l'essenza di ciò che è riuscito a compiere in vita?

La risposta direi proprio che sia Si!. Egli è stato uomo, ancor prima che alpinista, ed amante vero della montagna in tutte le sue sfaccettature ancor prima che scalatore estremo. 

Fin da adolescente mostra le sue grandi doti da arrampicatore, ed a soli 24 anni prende parte ad una delle spedizioni italiane più storiche e più rilevanti a livello mondiale, la scalata al K2, nel 1954.

La spedizione fu un successo, almeno a livello di opinione pubblica, ma si portò con se strascichi, personali, particolarmente nell'animo di Bonatti, che si protrassero per una vita intera o quasi, ed il docufilm documenta appunto anche questo aspetto, con tutti i fatti salienti e colpi di scena che si susseguirono negli anni, relativi alla vicenda.

Scalò di tutto in vita, pareti impensabili, in stagioni che le rendevano ancora più impervie, e ne usci sempre vincitore, pagandone spesso comunque prezzi molto alti, come la perdita di diversi compagni di viaggio in tali spedizioni, prima di appendere definitivamente corde e piccone al chiodo all'età di 35 anni.

Diventando però a quel punto viaggiatore e reporter per giornali di natura e rimanendo quello che è sempre stato più di ogni cosa, un avventuriero.

Al suo fianco come detto risulta rilevante la figura di Rossana Podestà, famosa attrice dell'epoca, che non sognava altri divi del cinema al suo fianco, ma un uomo come lui, e dopo averlo apertamente dichiarato alla stampa, la loro conoscenza si concretizzò e si protrasse crescendo sempre più, fino alla fine dei loro rispettivi giorni.

Verso il finale del film, si mostra la malattia di Bonatti, e di come la Podestà dichiari di non volerlo informare del responso dei medici, (non è chiaro se sia una scelta del regista od attinente ai fatti reali) questo però suona come una incongruenza, una nota stonata nella loro relazione, perché, che lei lo abbia davvero amato è molto probabile, che lo abbia sopportato in tutti i lati più spigolosi del suo carattere è quasi certo, ma il sospetto che non lo abbia del tutto capito, rimane presente.. perché nascondere una malattia incurabile, ad un uomo che più di tutto nella vita ha ricercato la verità in ogni cosa, suona come se tu non abbia mai ascoltato chi hai davanti. 

Al docufilm hanno partecipato in molti, esterni o meno alle vite vere e proprie dei protagonisti, tra i quali vari interventi di Fabio Fazio che espone anche egli e direi egregiamente, il proprio pensiero sull'ossessione per la verità da parte di Bonatti, dicendo : "Un galantuomo non può accettare il disonore, quando non è meritato".

In conclusione, la vita di Bonatti risulta all'interno del film come effettivamente eccezionale, per l'uomo che era e per le imprese che compiva, ma probabilmente certe imprese non le avrebbe potute compiere se non fosse stato l'uomo che era, ed un uomo cosi non poteva che compiere certe imprese.

L'amore romanzato invece ne esce un po' più in secondo piano rispetto a quanto volessero far credere, viene quasi il dubbio che forse non fosse nemmeno amore ma più un incontro di solitudini. 

Una nota a parte va ad Alessio Boni, attore protagonista, che come era successo per il docufilm sulla vita dell'imprenditore Enrico Piaggio, viene scelto per rappresentarne l'uomo solo al comando e come era accaduto anche per l'altra opera, risulta credibile ed efficace. Con in aggiunta il fatto che, se nell'altra pellicola il suo accento non combaciasse per niente con quello del vero Piaggio, in questa sicuramente è stato più che appropriato, essendo egli Bergamasco proprio come Bonatti, ed essendo stato questo certamente un onore immenso per lui rappresentare degnamente uno dei suoi più grandi conterranei di sempre. 

A questi si aggiunge un altro intervistato durante il film, Simone Moro, forse il più grande alpinista italiano vivente ed anch'egli bergamasco d.o.c. , perché "Berg" significa proprio montagna in Tedesco, da quelle parti ce l'hanno nel sangue, come la necessità di compiere imprese e scalare per loro vuol dire scoprirsi dentro e questo concetto viene ben espresso da Bonatti, in quella che forse è la più bella frase del film : 

"Scalare e viaggiare è sempre stato un modo per conoscere me stesso, ed è un'esplorazione che non finisce mai, perché l'uomo è infinito!"

Perche si dice "Ciak"? - #CineFacts

 


La parola Ciak non è altro che una onomatopea, ossia una parola che cerca con il proprio suono quando viene pronunciata, di avvicinarsi il più possibile al suono emesso dall'oggetto che vuole rappresentare.
In questo caso, la parola sta ad indicare il suono che l'asticella superiore (o inferiore nel caso del Ciak Italiano) emette quando colpisce il resto della tavoletta.

Tavoletta, che è in uso dai primi del novecento un po' in tutto il cinema mondiale, vista la propria semplicità di realizzazione, di utilizzo e la propria utilità. 
Non è mutata molto nel corso degli anni, ma in alcuni casi quella classica nero e bianca con le scritte in gesso, è stata sostituita da una versione elettronica. 



Si usa ad inizio ripresa, anche se talvolta viene inserita a fine scena ed in tal caso capovolta, per indicare in fase di editing, di quale scena ed il numero di volte che sia stata girata e che tipo di inquadratura sia. Il tutto è accompagnato dagli stessi dati pronunciati a voce in contemporanea al ciak. 

In sostanza non è un oggetto ornamentale o di contorno, ne tanto meno un gesto protrattosi negli anni per scaramanzia, ma un vero e proprio strumento di lavoro, tutt'oggi imprescindibile e difficilmente soppiantabile del tutto al momento, anche in questa era digitale. 

mercoledì 22 settembre 2021

Che cosa è il vero "Effetto farfalla"?

Nell'ormai abbastanza lontano 2004, usciva nelle sale " The batterfly effect", film con un sorprendente Ashton Kutcher ed una altrettanto ottima performance da parte di Amy Smart. Il risultato fu un ottimo successo di pubblico, ma non fu altrettanto acclamato dalla critica.

(Tecnicamente il film è ad oggi parte di una sorta di trilogia, essendo la saga continuata con altri due titoli usciti come The batterfly effect 2 e The batterfly effect 3 - Revelations.)

Questa non vuole essere una recensione ne una spiegazione degli avvenimenti del film, che si collegano al concetto di effetto farfalla, ma bensì semplicemente una breve spiegazione su che cosa sia di fatto questo effetto e perché possa aver intrigato la cinematografia e lo spettatore. 

L'effetto farfalla non è altro che un'espressione per definire come, una piccola variazione, si amplifichi nello spazio e nel tempo. Come esempio viene usato appunto il battito di ali di una farfalla e come possa esso simbolicamente, scatenare un uragano dall'altra parte del mondo.



Si potrebbe definire l'opposto del concetto matematico della proprietà commutativa, familiare a tutti e con il quale siamo cresciuti, dove cambiando l'ordine degli addendi il risultato non cambia.

In questo caso invece cambia, si amplifica, con fattori variabili e persino esponenziali e lo fa in maniera permanente. Aspetto che viene trattato appunto nel film, dove l'estenuante tentativo del protagonista di correggere tali cambiamenti originati da una piccola variazione iniziale, finiscono sempre per dover essere invece corretti dalla base, l'inizio, dovendo per forza tornare all'origine dai fatti. 

L'effetto farfalla fu per la prima volta trattato appunto in meteorologia, dove ci si accorse che semplici arrotondamenti nei dati, causavano significative variazioni nella previsione finale a lungo termine. 

La trasposizione nell'arte di tale concetto è avvenuta in molti campi, come nella letteratura, grazie al prolifico autore Ray Bradbury, nel suo "Rumore di tuono", opera che ha poi ispirato appunto il primo dei film The butterfly effect, ma anche in senso più lato, come semplice destino, in una pellicola di pochi anni precedenti, Sliding doors, dove il solo scegliere di non prendere la metropolitana, direziona la protagonista in una serie di eventi simili ma con risultati diametralmente opposti. 

domenica 19 settembre 2021

Che cosa è una "maratona cinematografica"? - #CineFacts

Una "maratona cinematografica", non è altro che un gioco di parole, o meglio di concetti, tra la ben conosciuta gara podistica, chiamata appunto maratona, ed il fatto di visionare dei film in maniera continuativa, talvolta proprio ininterrotta.

La gara di atletica non ha bisogno di per se di grandi spiegazioni, un po' tutti sappiamo che è uno degli emblemi delle Olimpiadi estive e che vi è sempre stata sin dalla sua prima edizione. Il nome lo deve semplicemente alla prestazione fisica, una missione vera e propria a dire il vero, di un soldato Ateniese, che per annunciare la vittoria al resto della città, avvenuta proprio nella citta di Maratona, corse per 42 km. La distanza che è oggi e da sempre, quella da coprire nel minor tempo possibile durante la gara per aggiudicarsi la vittoria.

Anche l'aspetto cinematografico non necessita di particolari delucidazioni, si tratta soltanto di proiezioni di film, lungometraggi, per intero, in sale (o salotti se ne fosse una versione amatoriale).

I due termini insieme invece formano un concetto ben preciso, che forse non è proprio conosciuto da tutti.

Si tratta di stabilire (senza nessun obbligo di completarne la visione) una serie di film, rigorosamente a tema, da visionare, nell'arco di giorni o settimane, magari con una cadenza ben precisa, oppure, come ancor più spesso accade, in maniera continuativa, letteralmente uno dopo l'altro.

Le maratone cinematografiche hanno come detto rigorosamente un tema e spesso esso è assai specifico. Può capitare infatti che si tratti soltanto di tutti i film usciti di una determinata saga, una delle più classiche maratone è infatti dedicata a tutti gli atti di star wars.

Potrebbe tuttavia essere anche un tema più vasto, come una serie di documentari sull'ambiente, oppure persino una serie di film riguardanti proprio le maratone podistiche, in una sorta di inception. 

In generale gli scopi di un tale sforzo organizzativo sono principalmente due : 

Dare importanza all'aspetto istruttivo, ossia scegliere un tema che valga come riscoperta, per esempio una serie di pellicole d'autore italiane degli anni 70. Cercando quindi di far scoprire o riscoprire allo spettatore un genere, o magari una certa cerchia di attori che lo hanno segnato e contraddistinto. 

L'altro scopo invece è il puro divertimento/intrattenimento. Si cerca dunque di privilegiare l'aspetto di tempo passato con altri fan magari di una determinata saga, a "guardarne" (si tratta quasi sempre in realtà di un RIguardare) gli episodi assieme, al cinema, magari per una intera domenica o quasi. 



mercoledì 15 settembre 2021

Totò contro Maciste (1962) - #Recensione

La pellicola non è altro che una finta e simbolica immersione di Toto e del suo fedele compagno, nello specifico Nino Taranto, nel mondo egizio all'apice della propria gloria. 


I due si esibivano in giro per l'Egitto con trucchi di magia basati su di una presunta, ma totalmente artefatta forza bruta, posseduta da Totò. La cosa finisce per portarli al cospetto del faraone, il quale necessitava proprio di qualcuno che fosse in grado di fronteggiare il suo ex fedelissimo, Maciste.
Decide dunque, dopo ulteriori prove che Totokamen (Totò) possedesse davvero tale forza e fosse realmente il figlio diretto del dio Amon, di affidargli per intero il proprio esercito e di concedergli carta bianca riguardo alle decisioni future per esso, ed alle proprie eventuali richieste personali.
Il resto è una serie di vicissitudini più o meno surreali, con al centro i due protagonisti, che cercano di portare avanti la propria pantomima, finendo in parte, per quanto riguarda Totò, nell'immedesimarsi davvero nel figlio di un dio, tanto da autoconvincersene. 

Forse non la migliore delle pellicole di Totò, questo certamente lo si può dire, volendo usare un gigantesco eufemismo, ma vediamo che cosa si può salvare di quello che è stato chiaramente un film fatto per il mero scopo di racimolare il più possibile usando volto e nome del protagonista. 
Pieno di riferimenti storici tanto per mantenere lo spettatore su temi vagamente conosciuti e con parole che risuonassero nelle loro menti come familiari, il valore del film vorrebbe risiedere proprio nell'umorismo visivo di Totò, che però proprio non arriva e non aggiunge niente al già visto, e nell'umorismo della sceneggiatura, che è quasi del tutto basato su giochi di parole estremamente forzati tra l'italiano scritto ed il mondo egizio con i suoi emblemi. 


Il risultato sfocia più spesso nella pateticità e nel cattivo gusto che nel far scatenare una risata. Certo è stato un film realizzato per prendere un pubblico più vasto possibile, dai bambini fino alla terza età avanzata, ma non credo che nemmeno le fasce di età meno attente alla forma si siano fatte particolarmente trasportare e sollazzare da tale opera. 

Il tutto in una serie di concetti e scene di una ridondanza, quella si, quasi comica.
Non è chiaro che cosa aggiunga una pellicola del genere ad un film muto di 30 anni prima, dove non vi era da ascoltare lo sgradevole sottofondo di battute infantili e forzate messe sopra a scene di incomprensioni tra i protagonisti, buoni e cattivi, che portavano avanti la trama più che comprensibilmente già da sole. 

Totò scomparirà di li a pochi anni e questo difficilmente verrà ricordato come uno dei suoi capolavori anche dal fan più accanito, rimane quindi da capire come mai a fine carriera si voglia mettere nel curriculum un'opera del genere, quando sarebbe stato meglio per tutti, pubblico e protagonisti, che non fosse mai stata data alla luce.
Naturale che invece le produzioni come detto spingessero per continuare ad usare la sua immagine il più possibile, per lucro, ma un rifiuto a prenderne parte da parte dei protagonisti sarebbe certamente stato gradito. 

sabato 11 settembre 2021

Il diario dell'amore (2016) - #Recensione (Spoiler)

Il titolo è eccessivamente romantico per i temi che vengono effettivamente trattati e fa sicuramente cadere lo spettatore in un probabilmente involontario inganno che si tratti di un'opera riguardante le relazioni amorose e poco altro.

La pellicola è una produzione americana del 2016, catalogata ufficialmente come genere : "Drammatico", ma ha più spesso i tratti di una commedia che di un vero e proprio intreccio con episodi e risvolti tristi, i quali, presenti appunto a tratti, sembrano tutti piuttosto forzati e forse nemmeno cosi essenziali per la narrazione e per la morale.  

L'esempio lampante accade subito nei primi minuti, quando Henry, il protagonista, architetto la quale carriera ha appena preso una ottima piega grazie alla approvazione di un suo recente progetto, viene sconvolto dalla perdita improvvisa della moglie, a causa di un incidente automobilistico. 

La sua successiva conoscenza di una ragazzina del quartiere che cercava di costruirsi una zattera per andare per mari a cercare il padre, gli permette di rigettarsi a capofitto in un qualcosa di coinvolgente, che lo riesce a tenere, ma solo apparentemente, lontano dal proprio dolore e dai proprio conflitti interiori.

Il suo intento di volerla aiutare col progetto viene visto inizialmente con sospetto dalla giovane Millie ed ancor più la loro iniziale convivenza non si può dire che abbia la migliore delle partenze.

Il resto è un insieme di scene più o meno fluide, con tutto il range di episodi abbastanza tipici appunto della commedia, da i fraintendimenti alle gag generazionali. 

C'è pero la ferma volontà da parte di entrambi di raggiungere dei fini più grandi, ed è questo che li tiene uniti. Henry vede forse in lei, oltre che una persona oggettivamente bisognosa di aiuto, anche in parte la figlia che non è riuscito ad avere dalla moglie, che purtroppo al momento dell'incidente era incinta del loro futuro primogenito.

Per Millie la ricerca del padre, bene primario nella sua vita e sua quasi unica ragione di ambizione di andar per mari, si rivela fittizia. Ella è perfettamente a conoscenza che il padre sia già deceduto anni prima nel suo vagare tra le onde.

Rimane quindi la possibilità che per entrambi non sia altro che una ricerca di se stessi, tutti e due hanno certamente perso ciò che di più caro avevano al mondo e sono rimasti soli, il che li spinge alla deriva nella vita senza più ambizioni socialmente accettabili e senza una minimamente chiara visione del futuro.

C'erano molti elementi che potevano portare l'opera ad avere un certo livello di apprezzamento, a partire dal cast, Jessica Biel, Jason Sudekis, Maisie Williams, Mary Steenburgen sono forse nomi non cosi altisonanti ne blasonati, ma certamente facce molto riconoscibili e conosciute dal pubblico, che hanno molto probabilmente richiesto un budget non da film di serie b. 
La loro recitazione è stata di fatto inoltre piuttosto credibile, Sudekis ha tenuto banco in primo piano con espressioni che rappresentavano un notevole range di emozioni, per la quasi totalità del film. 
I personaggi stessi appaiono sufficientemente tridimensionali e credibili.


Eppure cosi non è stato, il film risulta un insieme di scene spesso poco ben amalgamate tra loro, la suspense non è quasi mai realmente coinvolgente, i tratti drammatici del film non riescono a causa di un po' tutti i parametri, dalle inquadrature, al sonoro, ai tagli, ad essere toccanti quanto vorrebbero.
La vena comica è presente e spezza spesso bene le parti serie, ma è troppo marcata in molti suoi aspetti, e finisce per risultare in piccole scene o battute, più adatte ad una commedia come American Pie, che ad una storia di tragedie familiari multiple. 

In sostanza è un film che forse non è da crocifiggere, ma che va bene più ad un pubblico casalingo, infrasettimanale, che fa zapping in tv, che a qualcuno che scelga di prendere l'auto e fare kilometri per passere una domenica al cinema a cercar di vedere un qualcosa di memorabile e rilevante. 

martedì 7 settembre 2021

"Li rincontrerai, ma non ancora." - #RiconosCinema


Tornare a casa dalla guerra rappresenta la salvezza, in primis, ed in secondo luogo tutto il resto. Chi riesce ad essere rimandato a casa dal fronte, anche se non tutto intero, considera il tornare da dove è venuto, la fine di un incubo. Il che fa capire bene come ogni casa, sia considerata meravigliosa al proprio ritorno. Tuttavia, alcune lo sono davvero a prescindere.

Era una doverosa premessa questa, per dire che i luoghi incantati, paradisiaci, in foto, con annesso il casolare che il generale delle truppe legionarie romane, Massimo Decimo Meridio, considerava come casa, presente nelle scene del film di Ridley Scott, Il Gladiatore, del 2000, sarebbe apparso ad un congedato dalla guerra, favoloso probabilmente quanto qualsiasi altro luogo chiamato casa al proprio ritorno.




Detto questo, il luogo in questione è la zona della Val D'orcia, nel Senese, in Toscana, forse una zona
che persino più di altre in quelle terre, riceve apprezzamenti e visite per i propri panorami. La troupe delle riprese, senza Russell Crowe in persona, trascorse in quelle terre 2 settimane, per riprendere immagini da inserire poi nel film.  


Lo scenario è quello che viene spesso definito come "il tipico paesaggio Toscano", ed effettivamente la situazione è piuttosto tipica, fatta di colline coltivate e casolari dove ancora la vita scorre a ritmi di altri tempi, il tutto forma appunto quello che maggiormente viene associato alla Toscana e finisce per esserne anche la sua principale cartolina, spesso letteralmente. 

Nel film il protagonista li immagina come i Campi Elisi, nella realtà si tratta effettivamente di luoghi immacolati, che oltre ad il proprio indiscutibile valore visivo, raccolgono una infinità di piccoli borghi che a loro volta si sono fatti strada nel mondo con elementi peculiari, come prodotti culinari tipici, Pienza ed il proprio pecorino su tutti, o con tradizioni secolari, non poi cosi lontane da quelle che erano le brute prove di forza da parte dei gladiatori, come il tuttora esistente e fiorente Palio di Siena. 

(La tenuta in questione, di 1300 mt quadri abitabili, inseriti in un appezzamento di 70 ettari, è stata recentemente messa in vendita, 2019, per una cifra imprecisata.)


sabato 4 settembre 2021

Renato Salvatori, dalla Versilia a Cinecittà.

Giuseppe Salvatori, in arte Renato, è stato un attore toscano, versiliese più precisamente, della Versilia vera, quella storica, quella che viene spesso confusa con tutto l'insieme di stabilimenti balneari ed attrazioni turistiche di tutto il resto dei paesi che si trovano sulla costa in quel lembo di terra, definizione moderna lontana quella che era infatti la divisione territoriale e sociale in tempi passati.

Nacque appunto in una situazione familiare molto semplice, tanto che fece poi essere a lui dedicata una mostra chiamata proprio "Povero ma bello" (Anche in relazione al fatto che il suo debutto fu nel film di grande successo "Poveri ma belli"), ed iniziò la propria vita da adulto in contesti che erano molto lontani da quelli del cinema, in quelle che erano le situazioni lavorative più classiche della zona, fu infatti sia marmista, lavorando nelle cave dove lavorare il padre, che bagnino, dato che, appunto la Versilia offre la montagna, quella vera, fredda e dura, a pochi passi dalle rinomate spiagge da film e cartolina.


Da questo iniziale contesto di provincia, fatto di azioni ripetitive, finì agli antipodi di tale scenario, ossia dove nulla è mai due volte lo stesso e dove si è persone completamente diverse da un giorno all'altro, sul set cinematografico. Si ritrovò proiettato in breve tempo in film cult di grandi registi come Dino Risi e Luchino Visconti, fu egli infatti uno dei protagonisti di Rocco e i suoi fratelli, film del 1960, considerato uno dei 100 film italiani in bianco e nero da salvare, in una classifica stilata dalla mostra del cinema di Venezia.

A lui furono dedicate alcune iniziative ed opere postume alla sua morte, come appunto la citata mostra nel suo comune di nascita, Seravezza, per il ventennale della sua scomparsa, o come il busto, in foto, situato sul lungomare, proprio di fronte alla leggendaria discoteca per vip che è La Capannina, nel comune di Forte dei Marmi. 

L'incisione è praticamente illeggibile, in foto, ma lo è poco oramai anche dal vivo, l'opera giace appunto al momento in uno stato di discreto abbandono. Oltre alle lettere poco comprensibili, è visibile anche il notevole cambiamento di colorazione, che ha fatto passare la scultura, realizzata in un bianchissimo marmo tipico della sua terra, ad un giallo paglierino che davvero sembra mendicare un intervento di pulizia, che oltre che piuttosto semplice, sembrerebbe più che dovuto, se si vuole mantenere degnamente un fregio della propria terra.

Jimmy Carr, uno dei re del Black humor.